Cedolare secca estesa a negozi e botteghe
Con l’ampliamento, disposto nella Legge di Bilancio 2019, del raggio d’azione della cedolare secca agli affitti di immobili commerciali, viene in parte a decadere il “tabù” che voleva tale tassazione vincolata esclusivamente alle locazioni di natura abitativa (tassazione, ricordiamo, che, se opzionata, va a sostituire l’Irpef). Abbiamo specificato “in parte” perché, dal dettato della norma, emerge come l’eventuale applicazione della cedolare secca al di fuori degli immobili abitativi sia comunque ristretta a una certa tipologia di unità “commerciali”, seppur la più estesa. Vediamo allora cosa stabilisce il testo. Dice che “il canone di locazione relativo ai contratti stipulati nell’anno 2019, aventi ad oggetto unità immobiliari classificate nella categoria catastale C/1, di superficie fino a 600 metri quadrati (non contando le pertinenze, ndr) e le relative pertinenze locate congiuntamente, può, in alternativa rispetto al regime ordinario vigente per la tassazione del reddito fondiario ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, essere assoggettato al regime della cedolare secca con l’aliquota del 21 per cento”. Quindi, oltre che per i fabbricati accatastati nella categoria A (le abitazioni appunto), sarà possibile scegliere il regime alternativo della cedolare secca anche in caso di affitto di unità immobiliari classificate nella categoria catastale C/1, di superficie fino a 600 metri quadrati, e delle relative pertinenze. Chiaro però che la restrizione specifica sugli immobili di categoria C/1, cioè i negozi e le botteghe, lascia comunque fuori altre categorie come la C/2 o la C/3, ovvero i magazzini e i laboratori per arti e mestieri.
Resta fermo, in ogni caso, il principio secondo cui la locazione non dev’essere stipulata “nell’esercizio di un’attività di impresa, o di arti e professioni”. L’atto dell’affitto, cioè, non deve coincidere con l’attività precipua del locatore. In pratica, così come avviene per le locazioni abitative, anche in questo caso l’opzione della cedolare è ammessa solo quando la locazione è fra privati, cioè quando il normale proprietario delle mura, che non agisce nell’esercizio di un’attività di impresa o di lavoro autonomo, decide di affittare l’immobile. Non è ammessa nemmeno l’applicazione nei casi di “contratti di locazione conclusi con conduttori che agiscono, indipendentemente dal successivo utilizzo dell’immobile, per finalità abitative di collaboratori e dipendenti”, e sono “altresì esclusi anche i contratti di locazione di immobili accatastati come abitativi, ma locati per uso ufficio o promiscuo”. Detto altrimenti, il privato che affitta la seconda o terza casa a disposizione, potrà applicare la cedolare secca a meno che l’affittuario, pur abitando nell’immobile, non lo voglia al tempo stesso utilizzare per ricavarci uno studio o comunque un luogo adibito all’esercizio della professione.
Sostanzialmente, scegliendo la cedolare secca, non si fa altro che “isolare” dall’imponibile Irpef il reddito annuo percepito con l’affitto, applicandovi l’aliquota del 21 o del 10 per cento (quest’ultima solo sui canoni abitativi concordati). Si tratta dunque di un vantaggio fiscale che ad ogni modo non è automatico e che dev’essere valutato volta per volta in base alla natura dei singoli casi, visto che l’allontanamento del reddito d’affitto dal raggio d’azione dell’Irpef potrebbe anche causare una situazione di incapienza ai fini di determinate detrazioni (spese mediche, mutui, istruzione, nonché 50 e 65%) che a quel punto non potrebbero essere più godute o potrebbero essere applicate solo in parte. Viceversa, facendo confluire il reddito d’affitto nell’imponibile Irpef, le eventuali detrazioni avrebbero un margine d’azione più ampio, essendo l’imposta più alta, e quindi più capiente per contenere tutto lo sconto. Con la cedolare secca, insomma, si ha certamente diritto ad aliquote più basse rispetto a quella meno salata dell’Irpef (al 23%), ma un’altra limitazione va anche individuata nel blocco (per il locatore) della possibilità “di chiedere l’aggiornamento del canone a qualunque titolo (compresi gli aggiornamenti Istat), anche se tale facoltà è prevista nel contratto di locazione”.